This article is written in italian and was published December 26th, 2024 by Corriere della Sera
Seguire l’onda: 20 anni dopo lo tsunami, il racconto da Banda Aceh

Il cimitero di massa di Siron, a Banda Aceh
La città più colpita dal terremoto e successivo maremoto che, il 26 dicembre 2004, ha devastato Indonesia, Thailandia e Sri Lanka. Si è trattato di uno dei più grandi disastri naturali della storia
La mattina del 26 dicembre 2004 non era diversa dalle altre. A Banda Aceh, città a nord di Sumatra, in Indonesia, alcuni si erano alzati presto per iniziare le faccende quotidiane, altri per fare sport. «Mio padre era uscito alle 6 per andare a nuotare», racconta Rudy Karimun, ingegnere di Giacarta, originario della zona e presente quel giorno. «Da quando era in pensione faceva sempre così la domenica: usciva presto con gli amici e andava al mare».
Poco prima delle 8, precisamente alle 07:58:53, un terremoto ha fatto tremare tutta la regione dell’Indo-Pacifico: magnitudo 9,1 sulla scala Richter, 8 minuti di durata, a soli 160 km a ovest di Sumatra. Si tratta della terza scossa più forte mai registrata nella storia della sismografia.
Da quel momento, a Banda Aceh non è più stata una mattina come le altre.
«Siamo una regione abituata ai terremoti», afferma Rudy. «Qui è normale avere una-due forti scosse ogni anno, ma quella era differente: non ne ho mai vissuta una così in vita mia».
Mezz’ora dopo il sisma, i cittadini stavano cominciando a contare i danni. Molti edifici erano crollati: sul grande minareto di fronte alla Moschea Baiturrahman, la principale della città, c’era una crepa che lo attraversava da parte a parte. «Ero con mia madre e mia moglie: siamo usciti in strada, stare dentro casa non era sicuro», dice ancora Rudy.
«All’improvviso, una fiumana di gente è arrivata correndo. Dicevano solo: “L’acqua, correte, l’acqua sta arrivando”. Non capivamo, perché eravamo a due chilometri dal mare e parecchio distanti dal fiume. Ma li abbiamo seguiti, confusi e spaventati».
Il terremoto si era generato in una zona di subduzione, dove la placca indiana si immerge sotto quella birmana. Lo spostamento delle placche aveva causato repentini movimenti di sollevamento e abbassamento del fondale, spostando un’enorme quantità d’acqua. Senza alcun sistema di preallarme, un’onda alta trenta metri si era abbattuta sulla città. Era lo tsunami, il più violento degli ultimi decenni.
«Per ironia della sorte, mio padre è stato più fortunato di noi», continua Rudy. «Dopo il terremoto, ha visto il mare ritrarsi di parecchi metri: è stato così che ha capito che qualcosa non andava e si è spostato in collina, al sicuro. Noi, invece, l’oceano ce lo siamo visti piombare addosso, caldo e sulfureo: un muro nero di 10 metri che attraversava la città, spazzando via ogni cosa».
Quella mattina, a Banda Aceh, l’acqua penetrò fino a sette chilometri dalla costa. Le zone più colpite furono quelle vicino all’oceano: Ulee Lheue, il porto civile della città, fu completamente sradicato dall’onda, la linea di costa spostata indietro di cinquanta metri.
«Quando l’acqua ci ha travolto, io mi sono salvato aggrappandomi a un albero», ricorda Rudy. «Mia madre e mia moglie sono state trascinate via: mia moglie è sopravvissuta, mia madre no. Non l’ho più vista».
Ricordare
L’esperienza di Rudy Karimun è simile a quella di molti, a Banda Aceh. È la città più grande della costa occidentale di Sumatra e la zona di terra più vicina all’epicentro del terremoto. Se lo tsunami ha colpito tutte le coste dell’Oceano Indiano, è stata qui la ferita più grande. Il bilancio totale della tragedia, infatti, è stato di oltre 230.000 vittime confermate, e in città si trovavano circa 80.000 di queste: più di un terzo.
Dewina Wu, che dopo lo tsunami ha lavorato per quasi 10 anni con la croce rossa taiwanese, quel giorno ha perso il marito e la figlia. «I corpi erano ovunque, anche a chilometri di distanza rispetto a dove le persone erano state viste l’ultima volta», racconta. «Ero tra le fortunate: io mia figlia l’avevo ritrovata. Purtroppo, dopo essere tornata a casa a riposare, me l’hanno portata via».
Nelle emergenze, alla prima tragedia spesso se ne aggiungono altre: l’unico modo per evitare lo spargersi di epidemie fu quello di costruire rapidamente dei grandi cimiteri di massa. Sulla strada per l’aeroporto, un po’ decentrato rispetto alla città, si trova quello di Siron: qui riposano 46.718 persone.
Ma non è l’unico segno tangibile della tragedia, attraversando Banda Aceh altri sono ancora più evidenti. Edifici diroccati come il General Hospital Meuraxa, completamente distrutto dall’onda, piccoli musei fotografici allestiti dai privati, rottami di auto, elicotteri e barche abbandonati nei parchi pubblici e per le strade. Il più famoso di questi è la carcassa del Kapal Apung, una nave per la generazione di energia elettrica: 2.600 tonnellate di acciaio arenate a 2 chilometri e mezzo dalla costa, oggi caratteristica irremovibile del panorama urbano.

La Kapal Apung, oggi arenata a 2 chilometri e mezzo dalla costa

Il Museo memoriale dello Tsunami al suo interno

Il Museo memoriale dello Tsunami al suo esterno

Carcassa di un elicottero al cimitero di massa di Ulee Lheue
Inoltre, il 26 dicembre 2009, cinque anni dopo la tragedia, è stato inaugurato in centro città il Museo dello Tsunami: un grande edificio moderno, circolare e grigio, che con le sue forme richiama un’onda scura. Le scuole della provincia hanno l’obbligo di portarci gli studenti almeno una volta all’anno.
Quella di creare una memoria collettiva, oltre a essere percepita come un obbligo morale dalla popolazione locale, è una strategia pianificata dal governo.
«Non sapevo nemmeno che una cosa del genere potesse succedere», spiega Dendy Montgomery, allora videomaker per Reuters, il primo a riprendere le immagini dello tsunami per i media internazionali. «Quando lo tsunami ci ha colpito, stavo facendo delle riprese sul terremoto in centro città. A un tratto, mia moglie mi ha chiamato dicendomi che della gente arrivava correndo, che tutti gridavano “acqua”. Io non ci ho dato peso, non mi sono allarmato per niente».
Le persone, così come le istituzioni, erano assolutamente sprovviste di conoscenze pratiche su cosa fosse necessario fare durante un’emergenza di questo tipo: un fatto decisivo, soprattutto se confrontato con altri esempi. «Esiste un’isola non molto lontano da qui, si chiama Simeulue», racconta Dendy. «La popolazione lì ha una memoria storica sugli tsunami: in una canzoncina raccontano ai bambini che, dopo forti scosse di terremoto, devono immediatamente fuggire verso le colline, poiché lo “smong”, la grande onda, seguirà di lì a poco».
Quando il terremoto colpì, gli abitanti di Simeulue furono in grado di riconoscere i segnali e riuscirono a mettersi in salvo: ci fu una sola vittima su una popolazione di circa 80.000 persone.

Le rovine del General Hospital Meuraxa
Quanto è stato fatto
Se ricordare è necessario, l’entità di una catastrofe come lo tsunami ha richiesto azioni e finanziamenti immediati.
«Non c’era più niente», ricorda Yuswar Yeoh, agente pubblicitario oggi in pensione e attuale marito di Dewina Wu. «Casa mia, il mio negozio, miracolosamente, si erano salvati, ma tutto il resto era stato raso al suolo».

Yuswar Yeoh e sua moglie, Dewina Wu
Dopo il 26 dicembre 2004, il 60% degli edifici di Banda Aceh era danneggiato o distrutto: gli sfollati erano circa 500.000 in tutta la provincia. Ciò che non era crollato a causa del terremoto è stato spazzato via dall’onda.
La priorità era liberare le strade dalle macerie e cercare i corpi delle vittime. Le risorse, però, erano limitate.
«Non bisogna dimenticare che in quel momento il governo indonesiano era in lotta con il movimento separatista acehnese: era vietato entrare nella provincia, per qualsiasi motivo», precisa Yuswar.
Nonostante le Nazioni Unite avessero dichiarato l’evento uno dei più grandi disastri naturali della storia, passarono quattro giorni prima che lo stallo, prettamente politico, si sbloccasse.
Nel frattempo, gli abitanti di Banda Aceh erano completamente sprovvisti di mezzi pesanti. «Dalle montagne erano scesi dei mahout [“allevatori”] con otto elefanti», racconta ancora Yuswar. «Era l’unico modo per spostare i detriti più voluminosi: hanno lavorato in città per due mesi e solo in alcune zone, ma hanno svolto un compito fondamentale».
Il 30 dicembre, cominciarono ad arrivare le prime forze militari internazionali: Stati Uniti, Australia, Cina e Singapore erano le nazioni capofila, ma più di 40 paesi inviarono truppe per supportare le operazioni di soccorso. A questi si aggiunsero gli oltre 35.000 operatori umanitari giunti nella provincia di Aceh.
Gli sfollati furono sistemati in strutture provvisorie, mentre le ONG si occupavano della distribuzione del cibo e dei beni di prima necessità. «Dopo lo tsunami, ho passato un periodo in cura a Giacarta: avevo un braccio rotto e l’udito completamente fuori uso», dice Yuswar. «Quando sono tornato, a febbraio, ho lavorato come volontario per la croce rossa indonesiana, occupandomi della comunità buddista e cinese di Banda Aceh. Il cibo arrivava in pacchi monoporzione, a volte anche solo uno ogni due giorni».
Nonostante le difficoltà iniziali, già nei primi mesi dopo l’evento la situazione cominciò a stabilizzarsi. «A marzo 2005 abbiamo ufficialmente iniziato la fase di ricostruzione», spiega Teuku Nara Setia, capo della BPBA, l’agenzia istituita per coordinare e implementare le attività di prevenzione, mitigazione, risposta e recupero in caso di disastri naturali. «È stato creato il BRR (Badan Rehabilitasi dan Rekonstruksi), l’ente responsabile della ricostruzione della provincia di Aceh. Da allora, gli aiuti sono stati organizzati e gestiti con più metodo».

Il capo della BPBA, Teuku Nara Setia
Il bilancio è positivo, soprattutto per la rapidità della risposta: tra settembre 2005 e dicembre 2007 vennero ricostruite 120.000 case, più di 800 scuole, riparati oltre 1.200 chilometri di strade e molto altro. Entro il 2012, la maggior parte dei lavori di ricostruzione fu completata.

La strada che da Banda Aceh porta a Meulaboh, completamente finanziata dagli Stati Uniti
«Da quel giorno, la popolazione di Banda Aceh ha fatto un miracolo», afferma Yuswar. «Se penso a cosa siamo riusciti a ricostruire e in pochissimo tempo…». Si interrompe, emozionato: il 26 dicembre 2004 sono morti sua moglie e due dei suoi figli.
«Se per me, con quello che ho perso, ritornare a una vera normalità è impossibile, posso comunque dirmi contento di vedere una città rinata. Una città viva».
Cos’è mancato
Oggi il focus è sulla sicurezza. «Non possiamo escludere che eventi del genere possano ricapitare», commenta Teuku Nara Setia. «Siamo sul Ring of Fire, uno dei luoghi geologicamente più attivi al mondo». Attualmente, il 62,4% della popolazione indonesiana vive ancora in zone a rischio terremoto e l’1,6% in aree potenzialmente letali in caso di tsunami. Si tratta, probabilmente, di una sottostima.
Dal 2004, secondo le autorità di Banda Aceh, sono stati fatti diversi passi avanti: ora esiste un sistema di preallarme, sono state create vie di evacuazione predefinite e segnalate, e sono stati costruiti degli emergency buildings – edifici rifugio in cemento armato, vuoti e aperti ai piani inferiori per permettere il deflusso dell’acqua nel caso di emergenza.

Il piano inferiore dell’emergency building di Ulee Lheue
Ma non è tutto oro quello che luccica. Le vie di evacuazione, ad esempio, sono ben tracciate solo in alcune aree: molti cartelli risultano impolverati e, a volte, danneggiati o spezzati. Esistono poi situazioni paradossali, come quella del villaggio di Layeun, a quaranta minuti di auto da Banda Aceh. Questo paese, con poco più di 1.000 abitanti, si trova al fondo di una ripida valle a forma di U, proprio di fronte al mare. La via di fuga, invece di essere scavata nella giungla retrostante, conduce sulla strada costiera. In caso di emergenza, gli abitanti devono avvicinarsi al mare prima di potersene allontanare definitivamente.
Gli emergency buildings, invece, sono troppo pochi. A Banda Aceh ce ne sono solo dieci: considerando che ogni rifugio può accogliere 2.000 persone, il totale è di appena 20.000 posti, meno del 10% della popolazione. Inoltre, molti di questi edifici sono in stato di abbandono a causa della mancata manutenzione.
Anche il sistema di preallarme non funziona come dovrebbe. È basato su un segnale radio attivato manualmente, il che implica che una persona debba presidiarlo 24 ore su 24 per azionarlo in caso di necessità. L’allarme viene poi trasmesso tramite megafoni di bassa qualità, collegati a ricetrasmittenti che spesso non funzionano.

Una delle stazioni per l’allarme
«Il problema, qui, è che programmare non fa parte della nostra cultura», commenta Dendy Montgomery. «Non abbiamo quattro stagioni, il tempo scorre sempre uguale. All’inizio della ricostruzione, alle persone bastava sapere che il loro nome fosse tra quelli che avrebbero ricevuto una casa, poco importava se si trovava a decine di chilometri dal loro tessuto sociale».
Oggi ci sono interi villaggi semideserti, come il famoso Friendship Village of Indonesia-China, noto anche come «Villaggio Jackie Chan»: 600 case donate dall’attore cinese sulle colline appena fuori Banda Aceh. Molte delle persone trasferite qui dopo la tragedia hanno finito per andarsene; altre sono rimaste, affrontando le difficoltà dovute al cambiamento delle loro condizioni di vita. «Prima dello tsunami, la maggior parte degli abitanti viveva grazie all’agricoltura, all’allevamento e alla pesca», spiega Salamudin, il capo della comunità. «Con i terreni danneggiati o riconvertiti, molti hanno perso l’accesso alle proprie fonti di reddito».
L’insegna del Friendship Village of Indonesia-China

Gli abitanti del Friendship Village of Indonesia-China
La ricostruzione, tuttavia, è ufficialmente conclusa, e gli obiettivi del governo – almeno secondo le autorità – sono stati raggiunti.
Conclude Dendy Montgomery: «Non possiamo sperare che completino il percorso. La mia speranza è che Banda Aceh diventi una città consapevole del pericolo che la circonda, quello che proviene dalla terra sotto di noi e dal mare di fronte a noi».
Dice: «Una città che non smetta di ricordare».

Una scolaresca sulla Kapal Apung
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