This article is written in italian and was published June 3rd, 2025 by Corriere della Sera
Musa, da 10 anni in Italia: «Ho sempre lavorato in regola, per un infortunio ho perso il permesso di soggiorno»
Nato in Gambia, è sbarcato a Lampedusa nel 2015. Vive al Patronato di Bergamo, ma la nuova domanda di asilo gli impedisce di lavorare per 60 giorni. L'operatore dell'accoglienza: «Il sistema non funziona»


Musa Sidibeh è un ragazzo del Gambia. Non sa il giorno preciso in cui è nato, ma dice di essere dell’86: ha 39 anni. È arrivato in Italia nel dicembre 2015, sbarcato a Lampedusa, e da allora ha sempre vissuto in Lombardia. Approssimativamente, quindi, Musa ha passato un quarto della sua vita qui, tra insidie burocratiche e blocchi istituzionali, sperimentati da tanti migranti in Italia, spesso lavorando a fatica. «Io voglio regolarizzarmi — dice con determinazione —. Altri si spostano, vanno e tornano passando di paese in paese, io resto qui: è il mio unico desiderio».
Un desiderio che l’anno scorso sembrava a portata di mano. Dopo nove anni aveva ricevuto una carta d’identità e lavorava a tempo pieno come giardiniere, sotto contratto: il suo capo lo andava a prendere al mattino e giravano insieme per cantieri verdi. Ma in una giornata di maggio, mentre stava lavorando su un prato a Desio, in Brianza, il tosaerba si è inceppato. Musa Sidibeh l’ha controllato, allo stesso modo di sempre: «L’ho fatto mille volte — spiega —. Quella volta però è ripartito all’improvviso. È come se mi avessero lanciato una maledizione». La falciatrice gli ha tranciato di netto le ultime falangi dell’indice e del medio della mano sinistra e, con esse, ha messo fine di colpo alla sua regolarità occupazionale.
L’infortunio ha innescato un effetto domino. Durante la convalescenza, mentre riceveva l’indennità dell’Inail, a Musa è stato notificato anche il rigetto della sua richiesta di permesso di soggiorno. In pochi giorni è passato da lavoratore regolare a migrante irregolare, costretto a ripartire da zero in un sistema che conosceva già bene.
Oggi, il suo status è ancora tutto in divenire. È riuscito a presentare una «reiterata», una nuova domanda di asilo, come previsto in caso di rigetto precedente. Il documento, però, come per chi è appena sbarcato, impedisce al migrante di lavorare per 60 giorni dall’emissione. Venerdì aveva un colloquio. L’imprenditore che lo voleva incontrare, venuto a sapere di questa clausola, ha dovuto ritirare la sua offerta. E Musa ha perso l’opportunità di ripartire.
«Io non voglio demonizzare il sistema che ha portato a questa situazione», afferma Antonio Semperboni, coordinatore dell’area accoglienza del Patronato San Vincenzo, dove Musa vive stabilmente da 8 anni. Spiega che, pur esistendo una buona collaborazione con la Questura — che ha permesso, ad esempio, l’avvio della nuova domanda d’asilo —, c’è una barriera tecno-burocratica che impedisce a molti migranti di vedersi riconosciuti i propri diritti, come una stabilità lavorativa e abitativa.
Secondo chi lavora ogni giorno in questo settore, il problema sta nel fatto che nell’accoglienza non si è mai passati da una fase emergenziale a una sistemica: gli organi dello Stato sono obbligati a seguire un iter documentale, spesso slegato dalle reali volontà di integrarsi della persona migrante. «L’impostazione è ancora quella della Bossi-Fini — continua Semperboni —. Un cittadino extracomunitario, per entrare in Italia, dovrebbe arrivare con un visto turistico, prendere contatti, tornare al suo Paese e attendere che qualcuno lo richiami per un’assunzione. Ma questo, nella realtà, non succede mai».
Musa, di fatto, è fortunato in quanto vive in un contesto in cui assistenza legale e gestione delle pratiche sono garantite agli ospiti. Ma, se fosse fuori da una struttura simile, non avrebbe i mezzi per affrontare da solo le procedure burocratiche. Finirebbe per strada, senza prospettive, facile preda della criminalità o del caporalato. Lui, da parte sua, resiste. «Non importa quanto tempo passerà, non importa se il mio fisico non dovesse reggere — dichiara —, io non perdo la speranza, non ci penso proprio: otterrò i miei documenti».


This article has been published by